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FOTO PRESENTI 4 |
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Falsi d'autore a Siena
JONI ICILIO FEDERICO COPIA DA GIROLAMO DI BENVENUTO
Martirio di santo Stefano
da Girolamo di Benvenuto
Tempera su tavola, cm 31,5 x 45,4
Siena, collezione privata
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Falsi d'autore a Siena
JONI ICILIO FEDERICO COPIA DA NEROCCIO DI BARTOLOMEO LANDI
Madonna con il Bambino,
santa Maria Maddalena e san Sebastiano
da Neroccio di Bartolomeo Landi
Tempera e oro su tavola, cm 109,2 x 72,1
New York, The Metropolitan Museum of Art
Robert Lehman Collection 1975
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Falsi d'autore a Siena
JONI ICILIO FEDERICO COPIA DA SANO DI PIETRO
I santi Cosma e Damiano e i loro fratelli
di fronte al proconsole Lycia
da Sano di Pietro
Tempera su tavola, cm 27,1 x 39,9
New York, The Metropolitan Museum of Art
Robert Lehman Collection 1975
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Falsi d'autore a Siena
JONI ICILIO FEDERICO COPIA DA GIOVANNI BELLINI
Cristo in pietà fra i dolenti
Stile prossimo a Mantenga (da Giovanni Bellini)
Tempera su tavola, cm 52 x 34,5
Siena, Società di Esecutori di Pie Disposizioni
collezione Bologna Buonsignori
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Anni fa, rovistando tra i documenti gelosamente conservati nel Getty
Research Institute di Los Angeles, mi imbattei in una lettera datata Firenze 4
ottobre 1819. In essa Luigi Ademollo, un talentuoso pittore neoclassico di
origine lombarda che ha inondato con i suoi dipinti murali le pareti di chiese,
ville e palazzi di mezza Toscana, scrive ad un suo amico senese, l'abate de
Angelis, rievocando un episodio svoltosi a Siena più di 20 anni prima. Si era
nel 1798, e l'Italia era percorsa in lungo e in largo dall'Armata francese. A
Siena, dove Ademollo temporaneamente ri -siedeva, capitò Giuseppe Bossi,
anch'egli lombardo, anch'egli pittore di provata fede neoclassica e destinato a
divenire il prestigioso segretario dell'Accademia di Brera. Lo accompagnava un
non meglio identificato «Signore inglese», che sospetto fosse William
YoungOttley, uno dei più precoci protagonisti di quella «fortuna dei Primitivi»,
che fece capolino prima timidamente, insinuandosi quasi di sop-piatto tra le
pieghe del revival neoclassico, per poi dilagare nel corso dell'800, quando
nelle Accademie i calchi dei capolavori antichi furono relegati nelle cantine e
trionfalmente sostituiti dai «fondi oro» e dal culto degli artisti fioriti
«prima di Raffaello». Scortato da Bossi, l'inglese aveva comperato «per pochi
paoli» alcuni dipinti su tavola del Due-Trecento, che non potendo al momento
essere trasportati a Milano erano stati depositati presso Ademollo in attesa di
tempi migliori. Ma erano passati anni e anni senza che nessuno si facesse vivo
con il pittore, il quale, nel lasciare Siena, aveva a sua volta affidato le
tavole ad un suo fiduciario locale. Vent'anni dopo, Bossi era morto e anche il
«custode» senese delle tavole era passato a miglior vita, quando, del tutto
inaspettatamente, Ademollo si era visto recapitare l'ingiunzione di restituire
al legittimo proprietario inglese quei «fondi oro», di cui erano
puntigliosamente specificati soggetto e misure. Di qui la lettera con cui il
pittore ricapitolava all'amico abate l'intera faccenda, nella speranza di
ottenere il suo aiuto a rintracciare quelle «gotiche pitture». Le quali, a suo
dire, erano prive di qual-siasi rilevanza estetica e venale, ma presentavano
tutt'al più qualche interesse di tipo erudito, trattandosi di testimonianze dei
primi e incerti «rudimenti dell'arte». Anche ammesso che Ademollo fosse in
buona fede nel giudicare di scarsissimo valore quei «fondi oro» (che invece,
anche solo a giudicare dai dati in nostro possesso, dovevano
essere tutt'altro che insignificanti), la lettera approdata al Getty apre
comunque un significativo spiraglio sulle prime incursioni nel Belpaese di
collezionisti d'oltralpe a caccia di tesori medievali, ceduti ad infima prezzo
perché sottovalutati Néèmeno interessante la luce che essa getta sul ruolo, non
necessariamente disinteressato, svolto da intellettuali d'avanguardia, come
Bossi e de Angelis, dei quali diversamente da Ademollc sappiamo per certo che
erano perfettamente in grado di comprendere il reale valore di simili «gotiche
pitture». L'episodio in questione mi è inevitabilmente riaffiorato alla
memoria mentre visitavo questa affascinante mostra senese («Falsi d'autore. lei
Ho Federico foni e la cultura del falso tra Otto e Novecento», S. Maria della
Scala, fino al 3 ottobre), che ha per protagonisti alcuni dei più abili falsari
di opere d'arte attivi in Italia tra fine Otto e inizi Novecento. Un'epoca in
cui ormai i «fondi oro» e, più in generale, le opere d'arte italiane del
Tre-Quattrocento non costituivano più il trofeo eccentrico di pochi
«intendenti», ma avevano monopolizzato il mercato internazionale, essendo
divenuti l'ambita preda di tutti i maggiori musei e collezionisti europei ed
americani. Rispetto a quanto accadeva ai tempi di Bossi e Ademollo, chi in
Italia possedeva quegli «oggettidel desiderio» non era più disposto a
sbarazzarsene «per pochi paoli», e il ruolo degli artisti locali, in non pochi
casi, si trasformò da quello di «fiancheggiatori», più o meno in buona fede, a
quello di «spacciatori». Centrata sul caposcuola indiscusso di questa nutrita
schiera di artisti-falsari, queU'Icilio Federico Joni (1866-1946) che con la sua
tecnica a dir poco prodigiosa riuscì ad ingannare perfino quella volpe
dall'occhio infallibile che fu Bernard Beren-son (il quale, accortosi
dell'inganno, non esitò ad incontrare Joni, stabilendo con lui un'intesa non
priva di ambigui risvolti collusivi), la mostra allinea un centinaio di falsi
«Primitivi», molti dei quali smascherati solo di recente, in cui rifulgono le in
-credibili doti mimetiche e le consumate scaltrezze tecniche, ma anche l'intima
adesione al mondo figurativo del passato non solo di Joni, ma di tutta una
scelta compagnia di falsari senesi e non, tra cui spicca il pro-teico Alceo
Dossena, capace di eseguire con identica e stupefacente maestria Madonne a'ia
Giovanni Pisano, rilievi dona telleschi e, chissà, forse anche qualche falso
kouros greco; oppure quell'Umberto Giunti, che di recente proprio il curatore
della mostra, Gianni Mazzoni, ha identificato come autore di tutti quei posticci
frammenti d'affresco in stile botticelliano, che Zeri raggruppò sotto il nome di
comodo di «Falsario in calcinaccio». È perfettamente condivisibile l'intento
di Mazzoni di contestualizzare l'attività di queste «simpatiche canaglie» nel
clima di recupero della propria identità culturale e di rigetto della «civiltà
delle macchine», che caratterizzava l'Italia e Siena tra Otto e Novecento, in
sintonia con il ripristino architettonico di mura e torri merlate, e con il
fiorire di Istituti d'arte impegnati a far rivivere le tecniche tradizionali
sull'esempio dell'Arts & Crafts Movement inglese. Meno convincente appare
invece il tentativo, che affiora tra le righe del catalogo, di gabbare per
autentici valori estetici i parti dell'inarrivabile virtuosismo tecnico di
personaggi come Dossena o Joni. Chissà come se la ride, quest'ultimo, dall'ai di
là, di fronte a queste affermazioni, ancorché fatte a mezza bocca! Che
soddisfazione, per un falsario inveterato come lui, che si era coniato come
motto un acrostico enigmatico, Paicap, che solo ora, grazie a testimonianze
d'epoca rinvenute da Mazzoni, siamo in grado di sciogliere ("Per andare in c...
al prossimo " ) !
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