Fu allievo prima di Lorenzo Toncini, poi di Bernardi Pollinari presso l'Istituto -Gazzola- di Piacenza. Esordì nell'81 a Milano, all'Esposizione Nazionale, con due quadretti di genere che ottennero le lodi della critica, pur con qualche riserva. Espose ancora in concorsi nazionali a Milano, Roma e Torino, segnalato dalla critica come un pittore di talento sacrificato in un ambiente -senz'aria-. Nel 1903 fu nominato conservatore del Museo Civico di Piacenza; nell'11 titolare di figura presso l'istituto d'arte in cui aveva studiato. Nel 1939 una mostra postuma allestita nel Salone del Palazzo Gotico di Piacenza per iniziativa di un suo allievo, Giacomo Bertucci, lo propose all'attenzione della critica, che finalmente si soffermò sulla sua attività artistica, che risultò, com'è, degna del massimo interesse. Dipinse ritratti, scene -di genere- (in realtà sono tutte pagine autobiografiche), soggetti sacri paesaggi; in tutti -è un candore da primitivo ed è questa sua condizione spirituale che lo rende superiore ad artisti più abili di lui- (Bertucci). La sua è una pittura scarna, di sintesi; non è mai gioco, mestiere, ma confessione, atto di fede. La sintesi fu interpretata come incapacità d'analisi, come mancanza di abilità. Nell'epoca di
Favretto, di Bazzaro, i suoi panneggi tirati, cadenzati (ricordano Piero della Francesca, anticipano Casorati), realizzati con tonalità spente, non piacquero. Era un pittore -triste-. Nel '39, come si disse, ci si accorse di lui; ma poi la guerra lo fece di nuovo dimenticare. -II -Ritratto di Lamoure- ci riporta nientemeno che al Goya, per gli accesi rossi del volto e l'acuto realismo. Col -Ritratto della signora Buscarini- (1883) si raggiunge il culmine a cui forse gli era dato aspirare. Costruito con grandissima perizia disegnativa in una struttura tutta rigore e con sobria cromia di grigi e verdini freddi e rosa, questo ritratto, pervaso di una liricità contenuta e di umano sentimento, va incluso fra i maggiori esemplari della pittura italiana dell'Ottocento- (Carrà).