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Vulci
AFFRESCHI DELLA TOMBA FRANCOIS
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VULCI (VITERBO) - Questa mostra al castello della Badia di Vulci con gli affreschi staccati di una delle più importanti tombe etrusche, la Tomba François, è una notizia quattro volte buona. Per la prima volta infatti dalla loro scoperta nel territorio di Vulci nel 1857, cioè dopo quasi 150 anni, gli affreschi vengono presentati tutti insieme al pubblico, prima in Germania, ad Amburgo, ed ora a Vulci (dal 26 giugno al 26 settembre). Riproducono scene della mitologia greca, della guerra di Troia, e della storia etrusca e infatti la mostra si intitola Miti greci, eroi etruschi: il ritorno della François a Vulci. Gli affreschi sono usciti dal più esclusivo e proibito museo privato archeologico del mondo, la collezione Torlonia, accessibile a studiosi selezionati, ospitata nella romana Villa Albani, dove sono entrati nel 1863 (la tomba era in un feudo dei Torlonia).
Seconda buona notizia. Dopo un anno di restauro gli affreschi, un ciclo di 26 metri quadri, fra i più importanti della pittura etrusca, sono stati salvati da un degrado che in questi decenni è stato progressivo e che aveva provocato molti allarmi sullo stato di conservazione amplificati dal senso di impotenza e dalla mancanza di informazioni controllabili. Terza. Gli affreschi sono stati salvati (salvo una scena ormai in gran parte irriconoscibile, una seconda molto rovinata già alla scoperta ed una terza molto danneggiata), ma sono un organismo che va mantenuto sotto una "tenda ad ossigeno". Esattamente ad una atmosfera controllata (temperatura di 21 gradi e umidità del 56 per cento). Questa è una condizione insormontabile da far valere nei confronti dei principi Torlonia sulla futura sistemazione degli affreschi, sempre a Villa Albani, o, finalmente, a Vulci, come ora in un ambiente protetto. Quarta buona notizia. Durante l'apertura della mostra sarà visitabile la Tomba François che finora è stata aperta eccezionalmente (con lo stesso biglietto della mostra, a gruppi di dieci persone). Una visita resa ancora più emozionante dal racconto della scoperta, uno dei ritrovamenti capolavoro dell'archeologia romantica ottocentesca.
Chiave di volta di questo avvenimento atteso da anni è stata la soprintendente per l'Etruria Meridionale, Anna Maria Moretti, archeologa "nata" a Vulci, che ha trovato ampia disponibilità nel principe Alessandro Torlonia. La contropartita è stata il restauro (coperto da uno sponsor tedesco) ormai diventato urgente. Il costo della mostra (oltre il restauro) è stato di 350 mila euro.
Vulci è un parco naturalistico archeologico di circa 900 ettari (90 visitabili) in provincia di Viterbo, nella Maremma laziale verso il mare, a circa 120 chilometri a Nord di Roma. Un pianoro mosso da continue vallette e forre, attraversato dal fiume Fiora che forma anche il laghetto Pelicone con cascata, con i resti e le necropoli di quella fu una delle città etrusche che più diede filo da torcere ai romani. I futuri conquistatori del mondo ne ebbero ragione nel 280 avanti Cristo e la "romanizzarono" a grande velocità anche con spirito vendicativo. Nessuna delle grandi famiglie di Vulci entrò nel Senato romano. La città antica che si vede è appunto quella romana, l'etrusca è sotto di almeno un paio di metri. La maggior potenza e ricchezza della Vulci etrusca durarono per ben tre secoli, dall' VIII al V.
Nel piccolo cortile del castello della Badia (origine del 1100, poi Farnese, contiguo al sottilissimo ponte etrusco alto circa 30 metri) è sorta una costruzione moderna dal tetto a spiovente. Qui è stata ricostruita la Tomba François, esattamente la parte a forma di "T" rovesciata, l'atrio e il tablinio, sulle cui pareti si sviluppa tutta la parte figurata del ciclo di affreschi. I dipinti su pannelli sono inseriti nelle pareti, alternati a sagome di colore argento che rappresentano gli ingressi delle sette camere sepolcrali che si aprivano tutto intorno. I visitatori (a gruppi di dieci) sostano in una specie di anticamera ad una temperatura che per il salto rispetto all'esterno sembra ancora più bassa (i gradi sono 26, portarsi un golfino non leggero) con un tappetino per pavimento simile a quello delle camere operatorie, per una decantazione delle polveri e di ulteriore coibentazione dello spazio condizionato della tomba. Insomma è un ambiente con la stessa funzione di quello che precede a Padova la cappella degli Scrovegni affrescata da Giotto. Nella tomba ricostruita l'aria è anche filtrata delle polveri e depurata dell'anidride carbonica prodotta dai visitatori in modo da evitare il deposito e l'ulteriore scurimento dei dipinti e il dannoso fenomeno di ricarbonatazione.
L'attenzione viene subito catturata dai due dipinti più imponenti, alti un metro e 50-un metro e 60 e lunghi più di tre, sui due lati della parte longitudinale della tomba, il tablinio. Nella realtà erano ai lati della camera sepolcrale di fondo (la VII) del proprietario e fondatore della tomba, Vel Saties, che nel IV secolo rappresentava una delle più importanti famiglie di Vulci. La datazione della tomba va dalla fine del IV al II secolo avanti Cristo.
Sopra l'ingresso della camera, nel lucernario ricostruito, i visitatori devono immaginare la maschera di tufo, in rilievo, di Caronte traghettatore dei defunti (visibile nel museo ospitato nello stesso castello della Badia insieme a frammenti di decorazione della "François").
I grandi pannelli sono animati da molte figure quasi tutte di colore rossastro, realizzate con senso realistico, occhi folgoranti. I personaggi sono impegnati in duelli con gran roteare di spade e zampilli di sangue. E sopra le teste iscrizioni più o meno visibili con i rispettivi nomi. Il pannello di sinistra ripete il sacrificio dei prigionieri troiani ad opera di Achille in onore di Patroclo che assiste come un'ombra e che ha sul petto una grande benda, segno della ferita mortale infertagli da Ettore. Al centro è Charun, il dio etrusco dei morti, dal colore bluastro come i corpi in decomposizione, che ha in mano un grosso martello col quale apre la porta degli inferi. Accanto a lui Achille dal capo riccioluto tiene per i capelli un troiano seduto per terra che sta sgozzando ritualmente con la spada. È assistito dalla dea dei morti dalle grandi ali. Altri prigionieri in piedi che grondano sangue per le ferite in battaglia, attendono il turno. Sono tenuti dai due Aiace. Uno è Aiace Oileo il locrese, eroe inferiore solo ad Achille, ma diventato l' "empio" dopo aver stuprato Cassandra strappata alla statua di Minerva. Trascina per i capelli un prigioniero legato che perde sangue, ma non è tutto: "Gli hanno tagliato i tendini delle gambe perché non fugga" aggiunge Anna Maria Moretti. Se questo è il mito (nell'Iliade sono sacrificati 12 prigionieri) la scena può far venire in mente la pubblica esecuzione di 307 prigionieri romani avvenuta nel 358 avanti Cristo nel foro di Tarquinia, la più importante delle città etrusche, allora in lotta con Roma per la supremazia nell'Italia Centrale. E i romani non si proclamavano discendenti dei troiani grazie ad Enea?
L'affresco di destra è ancora storia etrusca. Comincia con un capo, Celio Vibenna, che sta per essere liberato dai legacci ad opera di Mastarna, il nome di uno dei re etruschi di Roma, Servio Tullio. Alle sue spalle tre coppie di guerrieri stanno combattendo, tre di Vulci contro tre di Volsini, etruschi contro etruschi. Uno solo, che può essere un mercenario, è vestito di una corazza che però non lo salva perché Aulo Vibenna (fratello di Celio) prendendolo per i capelli gli infila la spada sotto l'ascella e lo trapassa, corazza compresa. Il senso di questo affresco è un invito all'unità degli etruschi (contro Roma) perché le lotte fratricide portano alla rovina.
Continuando sulla destra, appena oltre l'angolo, è un ulteriore scontro fra due guerrieri. Uno in piedi sta per estrarre la spada e tiene a terra per i capelli lo sconfitto che alza un braccio in segno di resa e di richiesta di pietà. Non sappiamo come vada a finire. Secondo gli archeologi e affidandosi alle scritte, il vincitore potrebbe essere di Vulci e lo sconfitto un Gnaeus della famiglia dei Tarquini di Roma. Corrispondente a questa scena (sul lato sinistro) è la fine di Eteocle e Polinice, i fratelli figli di Edipo, in lotta per la supremazia a Tebe, che si conficcano reciprocamente le daghe fra fontane di sangue.
Tornando sulla parete di destra c'è il ritratto del proprietario e iniziatore della tomba, Vel Saties. Secondo Massimo Pallottino, il fondatore dell'etruscologia come disciplina autonoma dell'archeologia, il suo ritratto è il più antico a figura intera della pittura occidentale. Vel Saties è in un atteggiamento da vincitore con la corona d'alloro in testa e la toga picta, color della porpora, con intessute figure di danzatori. Seduto accanto è il "piccolo Arnth" che ha in mano un uccellino con un aspetto di rondine, legato ad un filo lungo. Nonostante la sproporzione fra la testa e il corpo, gli studiosi concludono che non si tratta di un nano o di una scena di un augure che si accinge ad interpretare il volo di un uccello, ma una scena quotidiana, del padre con il figlio.
In corrispondenza di Vel Saties, sull'altra parete, è il saggio Nestore con tunica e grande mantello, appoggiato ad uno scettro, nel momento in cui invita gli achei ad inviare una ambasceria guidata dal prode Fenice (raffigurato nell'affresco di fronte, molto rovinato) per far desistere Achille dall'ira mortale contro i compagni. La pulitura dell'affresco ha fatto affiorare sul collo di Nestore l'ombreggiatura a tratteggio per dare corposità e profondità.
Ai lati dell'ingresso della tomba sono, a sinistra, l'affresco della violenza di Aiace a Cassandra (molto rovinato) e, a destra, in gran parte irriconoscibile, la pena di Sisifo che inutilmente spinge un masso in alto, e dell'indovino Anfiarao. Lo sconosciuto pittore di Cassandra ha avuto un colpo di genio usando toni rosati in alcune zone del corpo nudo della giovane che pur frammentario ha una notevole "attrattiva erotica".
Ma non è finita. Sopra i due affreschi di Achille e dei duelli fra etruschi corre un alto fregio che fa sobbalzare perché dimostra - come fa osservare Anna Maria Moretti - che gli etruschi conoscevano la prospettiva. Si tratta di una greca con effetto tridimensionale, con motivi continui di svastiche e l'inserimento di cubi aperti. La greca è dipinta con toni grigio-azzurrini mentre i cubi hanno un centro di ocra rossa. Il fregio continua sulle altre pareti e si trasforma. Al livello superiore sempre la greca, a quello inferiore il cosiddetto "fregio animalistico". Una serie continua di animali veri e fantastici, di lotte fra animali anche qui con sangue a fiotti: grifoni alati, pantere bianche, ghepardi, leoni, iene, cinghiali, un cavallo rosso, un gatto selvatico (in frammento). E sotto alle scene cruenti uno schieramento di colombe.
Ora gli affreschi si apprezzano nella forma migliore possibile, con i particolari, puliti della consistente patina grigia o nerastra delle polveri, degli adesivi fortemente alterati che affioravano in superficie, dei ritocchi alterati, delle stuccature che nascondevano resti della superficie originale; consolidati nei numerosi distacchi e sollevamenti della pellicola pittorica. Le integrazioni a tono (con acquerello) sono state limitate alle piccole cadute di colore in zone integre. Dove i colori sono stati abrasi in vaste porzioni le integrazioni sono state fatte con leggere velature di colore.
È stato un lungo, complesso, delicato cammino portato a termine dal consorzio "L'Officina" sotto la direzione scientifica di Daniela Candilio della soprintendenza speciale per il polo archeologico di Roma (e la "sorveglianza" dell'Istituto centrale del restauro) . Gli affreschi furono staccati per ordine dei Torlonia nel 1863 e trasferiti su di un supporto di gesso particolarmente inadatto anche per la sensibilità del gesso all'umidità. Nel 1947 furono restaurati con trasferimento su di un supporto di tela juta inchiodata ad una cornice di legno e la superficie pulita delle incrostazioni di silicati. Nel 1987 si cominciò a trasferirli su moderni pannelli a nido d'ape rivestiti in vetroresina per la mostra di quattro affreschi ai Musei Vaticani. Altri due furono aggiunti nel 2000 per la mostra sugli etruschi a Palazzo Grassi.
"I pannelli su pesante tela juta, con un telaio di legno, erano considerati come dei quadri. Ma né la tela né il telaio avevano la rigidità adatta a sostenerli - spiega Francesca Maletto de "L'Officina" -. Nel '47 erano state poi usate colle e adesivi di origine animale, di tipo organico, perchè probabilmente ritenute abbastanza flessibili per seguire i movimenti della tela, ma sono anche sensibili alle temperature, all' umidità, e facilmente attaccabili da microrganismi. Gli adesivi si muovono, tela e telaio si ritirano e si espandono provocando numerosi distacchi fra velatino e tela e fra pellicola pittorica e velatino. Adesso tutti i supporti sono a nido d'ape rivestiti in vetroresina, leggerissimi e rigidi quanto è necessario. Non è stato possibile eliminare completamente colle e adesivi senza mettere in pericolo la pellicola pittorica perché lo spessore dell'intonaco era già stato assottigliato al distacco dalle pareti della tomba. Era rimasta la pellicola pittorica, in alcuni casi un sottilissimo strato dell'intonachino e solo occasionalmente lacerti di arriccio a base di cocciopesto. Lo spessore era ridotto anche a pochi decimi di millimetro". L'atmosfera stabile e controllata a certe temperature e percentuali di umidità (le variazioni repentine sono il pericolo maggiore) è il metodo moderno per tenere sotto controllo i fenomeni fisico-chimici di degrado dei dipinti.
Per la visita alla vera Tomba François bisogna andare alla necropoli di Ponte Rotto, cosiddetta da un ponte romano a quattro arcate travolto dalle piene del Fiora e i cui resti affiorano ancora. La necropoli di tombe monumentali con pilastri, colonne, sculture, aveva di fronte la Vulci dei vivi che potevano anche così apprezzare la potenza e ricchezza delle varie famiglie. La tomba prende il nome dal suo scopritore, Alessandro François, che non era un archeologo patentato, ma un impiegato dell'amministrazione militare del granduca di Toscana, che doveva pietire permessi, non sempre concessi, per seguire la sua passione. François era già famoso nell'ambiente per aver scoperto, a fine 1844, in una necropoli etrusca nella fattoria di Dolciano presso Chiusi, il celeberrimo "Vaso François", in realtà un cratere opera fondamentale della ceramica greca attica, firmato da Ergotimos e Klitias con ben 129 iscrizioni, che fu acquistato dal granduca di Toscana per 500 zecchini e depositato agli Uffizi (ora è al Museo nazionale archeologico).
Vulci era già stata esplorata e scavata con grandi risultati da Luciano Bonaparte (uno dei fratelli di Napoleone, principe di Canino, a cui apparteneva la zona) e poi dai Torlonia, che erano subentrati, alla caccia del cosiddetto "tesoro della Cuccumella", uno dei tumuli più grandi. I corredi funerari di Vulci hanno formato le sezioni di etruscologia dei principali musei italiani, vaticani e di mezzo mondo.
François, studiando il terreno, fu messo in sospetto da una serie di querce secolari, allineate e rigogliose, in un costone in cui il travertino affiorante non faceva nascere che bassi arbusti. Quelle querce non potevano derivare che "da una polpa di terra assai profonda", un dromos, cioè un corridoio riempito di terra che conduceva ad un ipogeo. Le dimensioni dell'interro erano tali che doveva essere una tomba di grande importanza. Nell'aprile 1857 François fa abbattere gli alberi e incomincia a "zapponare" in un terreno fatto di una pietra calcare poco consistente, una tufite alternata a "sabbione", che è la disperazione degli archeologi . Presto trova il dromos che lo porta sempre più in profondità, a 15 metri. Prima trova un sepolcro vuoto, ma continua. Arriva ad una doppia lastra che impedisce l'ingresso nell'ipogeo sottostante. La fa abbattere e penetra nella tomba. Passa il tempo e gli operai rimasti fuori cominciano a chiamarlo, a urlare. François scriverà poi di aver perso il senso del tempo di fronte a quei corredi funerari, soprattutto a quelle "eccellenti pitture" che gli ricordavano "i bei tempi del Botticelli e del Perugino". François non ebbe modo di godersi la scoperta perché in ottobre morirà.
Ripensando a quei momenti è ancora emozionante fare la sessantina di passi nello stretto corridoio che portano all'ingresso della tomba, ad un mondo di 2300 anni fa. Il terreno è fradicio e si riconoscono i punti in cui è stato sparato materiale consolidante. In alto, sullo sfondo di una lama di cielo, una quercia è già ricresciuta. La tomba ha le travi del tetto e il lucernario scolpiti nella pietra, particolari architettonici, modanature dipinte a scaglie color ocra, rosso e azzurro cupo; cornici sontuose di stucco che terminano a becco di civetta attorno agli ingressi delle camere sepolcrali. La cella più importante (la VII, in fondo), quella del fondatore e della moglie, ha le pareti decorate a grossi rettangoli anche questi ocra, rosso cupo, verde cupo, separati da una cornice bianca. Sono ancora al loro posto lastre di intonaco rosso che hanno già subito restauri in antico come dimostrano certe grappette di bronzo.
Il primo François (Jean) arrivò in Italia nel 1745 dalla originaria Lorena, quale ispettore delle gabelle e contratti del granducato di Toscana. I discendenti si dedicano a fare vini nel castello di Querceto a Greve in Chianti e al loro avo più illustre hanno intitolato un vino, Il sole di Alessandro. Ma molti lo prendono per Alessandro il Grande.
(Goffredo Silvestri)
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