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FOTO PRESENTI 9 |
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNOVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIO VEDUTA DI BREMBATE SOTTO
(circa 1862-63)olio su tela, m. 0,45 x 0,61
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNOVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIO ARIANNA ABBANDONATA
anteriore al 1853
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNEVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIO, LOT E LE FIGLIE,
(1872), olio su tela, 66x51 cm, Collezione privata
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNEVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIO IL RITORNO DI AGAR
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNEVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIOFLORA, GIOVANE DONNA -
1868
Olio su tela - 64 x 49 cm
Accademia di Carrara, Bergamo
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNEVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIO PAESAGGIO
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNEVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIO RITRATTO DI GINA CACCIA ("LA COLLANA VERDE",
1862, olio su tela, cm 64x42, Milano, collezione privata)
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNEVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIO AUTORITRATTO
(1845 ca., olio su tela, cm 48x38, Bergamo, collezione privata)
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Carnevali Giovanni detto il Piccio,
CARNEVALI GIOVANNI DETTO IL PICCIO BAGNANTE
(1846/1850, olio su tela, cm 42x30, Bergamo, collezione privata)
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La genialità creativa del Piccio. … “Nato per la pittura, carattere schivo, amante della solitudine, rifugge dalle discussioni, dalle sistemazioni teoriche. In piena epoca neoclassica si sente al di fuori e al di sopra. Capisce il valore di certa pittura del Settecento e l’inerzia, fredda e cerebrale di quella moderna. Reagisce dipingendo come sente, e sente profondamente la natura, quella delle cose e quella dei cuori. Ama vedere, quindi viaggiare. Viaggiare a piedi. Nuotare, nuotare per ore…” ( Diotti, suo insegnante all’Accademia di Carrara). Uomo che spesso è stato paragonato a Leonardo per il suo innato senso della necessità del movimento, che attenua la forma con contorni irreali ed invisibili. Egli è in grado di fondere in un’unica massa le figure ed il paesaggio che le contiene. Il Piccio: precursore di tempi, colui che sa “aprire gli occhi” ai suoi compagni (come con il Cremona ed il Ranzoni), ma (come sempre accade ai più grandi) che non é immediatamente capito dalla critica. La sua arte, infatti, è notata ed apprezzata abbastanza tardi, nel 1909, quando si vedono riunite le sue opere alla “Mostra della pittura Lombarda” del secolo XIX. Ricordate il Piccio come uno dei più alti poeti della pittura lombarda; proprio per questo sottolineo queste parole: “Il suo colore non è materia, è luce, che si diffonde e fa crepitare il quadro…è un pulviscolo luminoso e sospeso nell’atmosfera. Dove possiamo trovare un altro esempio di queste polpe luminose se non nel Tiziano della vecchiaia, il più glorioso? Il Piccio, continuando la tradizione italiana, fa della luce un fatto poetico” (Valsecchi).
Carnovali, Giovanni, detto il Piccio (Montegrino Valtravaglia 1804 - annegato nel Po e sepolto a Cremona, 1873). Studiò dal 1815 all’Accademia Carrara di Bergamo sotto la direzione del pittore neoclassico Giuseppe Diotti, superando brillantemente il tirocinio e le prove accademiche. Aveva, da solo, guardato ai dipinti lasciati a Bergamo da Lotto e Moroni, nonché alla grande pittura veneziana, completando cosí liberamente la propria educazione artistica tra luminismo lombardo e colorismo veneto. S’impose all’attenzione dei contemporanei con la giovanile (1820 ca.) e ancora accademica pala della parrocchiale di AlmennoEducazione della Vergine). Di ritorno dal suo primo viaggio a Roma (1831), durante il quale eseguí numerosi disegni di paesaggio, si fermò a Parma studiandovi Correggio e Parmigianino. Sostò quindi a Cremona e, dalla metà degli anni ’30, a Milano, guadagnando soprattutto con un’intensa attività di ritrattista; mentre per pochi committenti amici eseguiva soggetti storici e mitologici, oltre che paesaggi, tutti di pittura molto libera e rapida, di stesura cromatica vibrante, intensamente evocativa e non descrittiva. Eccen-trico e anticonformista, nel 1835 si recò con l’amico Trécourta Parigi, ammirandovi Delacroix e i paesisti di Barbizon.A Roma tornò nel 1855, accompagnato dal giovane Faruffini allievo del Trécourt. Il suo linguaggio maturo è caratterizzato da una fattura vellutata, d’impasti, di tocchi e di velature che dissolvono i contorni, e da toni ricchi e vibranti. Conferisce particolare fluidità ai paesaggi (Lungo l’Adda, 1859: Bergamo, coll. priv.; Paesaggio con grandi alberi, 1850 ca.: Milano, gam; Mattino sule prealpi, 1862-63: Brescia, coll. priv.) e ai suoi dipinti mitologici (Salmace ed Ermafrodito, 1856: Crema, coll. priv.; iudizio di Paride, 1861: Milano, coll. priv.) o biblici (Susanna e i vecchioni, 1856-60), in parte connessi, questi ultimi, ala ventennale elaborazione della pala rappresentante Agar ne deserto (terminata nel 1862, rifiutata dalla chiesa comittente – la parrocchia di Alzano – e difesa dall’amico récourt). Isolata in seno alla corrente romantica italiana– come già prima in quella neoclassica, – la sua opera si segnala anche per la folta produzione ritrattistica che annovera alcuni idei intensi e sottili risultati di tutta la pittura del’Ottocento (Benedetto Tasca, 1850 ca.: Bergamo, coll. riv.; Gina Caccia, 1862: Milano, coll. priv.; Il veterinario: oma, gnam; e diversi, notevolissimi Autoritratti di varia gamm espressiva). Il P ebbe influsso determinante su pittori come Faruffini Cremona e Ranzoni.
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