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Luigi Cavallo
Alberto Sughi, La verita' per assenze: piaceri e disagi del notturno, in
L. Cavallo, A. Del Guercio, A. Sughi, Alberto Sughi, presentazione della mostra personale alla Galleria Marescalchi, (Bologna, 2000)
Il lavoro di Alberto Sughi è molto accosto al nostro tempo, tanto da farne sentire gli afrori e il ghiaccio sentimentale, le ipocrisie, le incertezze, i paradossi plausibili. Pur avendo intensa determinazione sociale, non esapera la partitura critica, come poteva essere negli intendimenti di Grosz e Dix - con i quali, del resto, Sughi ha contiguità linguistiche - o di taluni espressionisti come Schad, con una matrice violenta e macabra. La sua opera è anche documento, memoria, constatazione e contemplazione necessaria degli eventi. Rappresenta l'esistenza oggettiva che è insieme vita e desiderio di annullarsi. La vita appresa e rappresa in un'immagine. Ogni cosa si affida al disegno, alla plastica, al linguaggio della luce-colore; con questi strumenti composti organicamente sui lasciti della tradizione Sughi ha potuto concepire dei solidi legami con i capitoli celebri della storia contemporanea, non solo italiana, dando comunque continuità agli esiti del Novecento. Con tali capacità coltivate nella frequentazione parallela dei grandi modi espressivi, arte-letteratura-cinema-teatro, ha saputo saldare profondamente la sua pittura con la meditazione del presente, quindi con le varie implicazioni culturali. Il presente considerato non un segmento e conformazione isolata, bensii condizione che ha su di sé tutte le pressioni del passato ed è incalzata dagli allarmi, dalle palpitazioni del futuro, certo dalle angosce che l'ambiguità dell'essere contiene e produce. Assistiamo con Sughi a una grande rappresentazione che ci riguarda e sveglia la nostra coscienza, simulazione e dissimulazione, a una sorta di processo indiziario che ci coinvolge. Gli argomenti che mette in discussione ci rispecchiano da vicino e dal di dentro, ci scuotono dal torpore dell'abitudine a non vedere per non essere visti; ciò che viene dato nel quadro è, in parte, il nostro stesso corpo, le nostre fatiche, la rassegnazione, il recupero di qualche arcana forza che ci mantiene vivi qui e ora. Non c'è nostalgia di altri tempi; percepisci il senso di una fermata, per un momento, sul punto di tangenza del nostro provvisorio con un ingannamento di eternità, sfuggente, irraggiungibile, anche molesta, che ci insegue per tutta la nostra presenza nel mondo. Sughi ci spinge, insomma, a riconnettere le profonde ragioni o mistificazioni dell'uomo con i termini dell'immagine creata dall'artista: diversi particolari della sfera privata, che in apparenza poco contano, sono trasformati in un discorso di rilievo storico, e persino il capovolgimento dei correnti significati reali - l'identità individuale cercata nella tortuosa linea di demarcazione fra il corpo e l'anima, l'anima che da ineffabile astrazione si fa come concreta icona -, ciò che è specificamente un gioco provvisorio, acquista uno spazio a suo modo sociale e viene riconosciuto come indizio esemplare di una condizione. La particolarità della sua ottica sta nello scoprire molte invisibili presenze, questioni sottili, che modificano e lavorano le fisonomie, come le pietre di fiume; sta nell'intendere capitoli sotterranei di vicende espressive in cui si aggirano i fantasmi di Viani, di Rosai, di Sironi, e anche di William. Burroughs, le trasparenze dei caratteri, una sorta di magica corruzione dell'ordine formale fino alle soglie del magma informale. Sughi dà credito a valori drammatici in potenza, alla compressione dello stato d'animo che si manifesta magari con scarsa eloquenza nella nostra cultura pragmatica. Diffidenza per l'uomo d'oggi è gettare uno sguardo sui fogli di una rivista senza volerne ricavare nulla più che una notizia inutile alla propria esistenza: ma, per il pittore, è notizia quell'atto del leggere distrattamente anche cose crudeli: il fatto determinante, essenzíale, è quest'uomo che guarda senza vedere, che scorre le righe senza interesse, che si assenta dal mondo, da un mondo che sempre meno gli appartiene. Cosi' esplicito l'invito, l'indicazione, Notturno, di quest'ultimo ciclo pittorico di Sughi, compiuto fra il 1998 e il 1999, che, conoscendo le disposizioni a doppio fondo dei suoi orditi plastico-narrativi, subito se ne ricerca il senso che sta sotto a quanto l'artista ci dà per noto e insieme coperto dalle notturne ombre, dove la vita, appunto, sembra appoggiarsi al suo contrario. Nel campo notturno di Sughi avverti che c'è un enigma da dipanare e da raccogliere, qualcosa di sacrificale e di ironico, nascosto fra pelle e pelle, persino nelle profilature ripassate delle forme o in qualche nodo più scuro: notturno, come dire che il sole si ritira dietro il sipario delle tele o dietro l'ombra che le figure proiettano in se stesse. Come dire che attraverso il filtro del notturno, sono visti, immaginati i ritratti, i siparietti nei quali s'imprimono gli uomini e le loro ombre, giusto come scrisse Antonio Del Guercio, che attraverso il filtro dell'esistenzialismo sono guardati, immaginati anche altri ritratti: del se stesso che non si libera degli altri personaggi in cerca d'autore. Al tema della Sera, quindi, che venne svolto dalla metà degli anni Ottanta, il pittore fa seguire ora, rispettando il graduale giornaliero e un suo ritmo di colore-espressione, quello del Notturno. Tre quadri del 1998, Racconto nero/la camera - e ricordiamo le camere (Donna nella stanza, 1963, Nudo ín una stanza, 1963) con i nudi femminili feriti da lame di luce e dagli ampi segni taglienti del disagio -, Racconto nero n. 3 e n. 4, fanno come da premessa drammatica al nuovo ciclo. Uno scorcio romanzesco, da romanzo giallo, con figure sinistre, individui che constatano un crimine in un appartamento divenuto luogo di delitto: ma forse sono essi stessi finiti nella trappola che ha costruito il pittore. E qui non sarebbe impossibile avere sul fondo la voce di Antonin Artaud nel celebre Per farla finita con ílgiudizío di Dío. Sughi ha spesso maneggiato se non questi, temi similmente foschi, percorrendo e intrecciando con la sua pittura i confini rischiosi fra i personaggi e il loro mondo, la realtà e la sua messa in scena, gli scambi di identità fra ambienti e persone, persone e ambienti, sacrificando il versante della pietà e della compiacenza. Due donne al banco del bar, 1998, di cromie ancora accese, dà tematicamente inizio a quella che è la trattazione centrale. Notturno n. 1, 1998, e Notturno n. 2, 1998, ci fanno ritrovare senz'altro in un níghl club frequentato da coppie che ballano o si abbracciano, da donne vestite di seta con le labbra e gli occhi segnati da un trucco pesante, il cerone a lisciare le rughe, le unghie laccate, donne che aspettano un invito in una strana attesa silenziosa e priva di sorriso. Quasi una disperazione dai toni smorzati, patinata di eleganza. Sughi dipinge anche i profumi di quelle signore, delle loro ascelle depilate, del loro fiato secco di Martini e di Marlboro. Il piano, il pianista fanno sentire musica lenta, fluente, e sembra di ascoltare e riascoltare un vecchio acetato, note dolciastre che si appiccicano agli abiti, in accordo con il traslucido del locale e lo stordimento leggero degli alcolici. Uomini e donne assorti o assorbiti nella loro realtà isolata; una popolazione sterile che convive in un ambiente da Accadde una notte, colta in uno dei momenti resi rituali dai costumi borghesi del dopoguerra. Slow, entraineuses, il gioco dell'esserci e del non esserci, rapporti che al chiarire dell'alba dileguano come fumo di sigaretta. Tutto si svolge come al rallentatore. Sembra che aiuti il pittore la costruzione di tante pellicole americane; hai quasi l'impressione di aver scorso dei fotogrammi, di aver assistito a un film, ma dove tutte le frange, le superfluità connettive sono tagliate. Il regista-pittore non ha lasciato spazio alle deviazioni dell'incanto. Figure pronte a nascondersi dietro le quinte dell'anonimo, attori che attraversano ogni volta il loro doppio, le loro doppiezze, il loro triplice carattere e il palcoscenico è distillato con luci livide, grigio-viola, luce che è solitudine, forse, o discesa nel buio del proprio essere: essere tanto più rivelato, pubblico ed esposto alla società, tanto più negato alla conso~ lazione della solitudine... La castigatezza del colore fa pensare che anche il cinema è nato in bianco e nero. Ma si intende soprattutto che i riferimenti di Sughi sono a quei maestri barocchi che hanno cercato il senso della luce. La fonte luminosa di questi quadri è oltre la superficie dipinta, si intuisce che fuori dalla tela c'è l'illuminazione di partenza, una finestra, una porta socchiusa, il lume di un neon come suggerimento artificiale. Le donne e gli uomini astanti in questi locali hanno un forte dato di irrealtà provocato forse dalla sensazione della lunga notte di permanenza in locali anonimi, sono altrettante figure anonime, che aspettano qualcosa che non potrà mai arrivare dal futuro, non si guardano fra loro, fissano un punto nella penombra, un luogo oltre nel quale non arriveranno mai né hanno desiderio di andare. Tocchiamo qui, quasi carnalmente, l'ambuigità di questi modelli, meglio la frequenza e la fusione delle loro espressioni. Come se avere un contatto diretto con lo spettatore li mettesse a disagio: sembrano rapiti di peso dall'evento di un'esistenza anteriore, ed è forse per ciò che la partecipazione emotiva è come frenata e ossidata in un clima immoto, e l'immobilità, il senso di gelo, di ineluttabilità, li riconosci persino nelle orbite vuote e nere di talune teste femminili, le palpebre rialzate sugli orli, come nelle sculture classiche (Donna con tavolo e bicchiere, Due donne, del 1999). Anche in Notturno., Figure femminili, 1999, dove il tutto tondo dei corpi ha levigatezze di alta accademia, tale evidente impasto, provocatorio, fra classico e moderno risulta evocativo e consente un fascinoso spiazzamento alle immagini. Un'artista ha piantato il suo cavalletto in tali densità drammatiche, nel disagio di un apparente luogo di svago, in scene quanto mai qualsiasi, che ci fa riscoprire. Qui, in un clima tra ossessivo e monotono, si appuntano le sue attenzioni per cercare se dietro quegli involucri umani, anche eccitanti e di una seducente eleganza formale e cromatica, ci sia qualche cosa d'altro che l'apparente agiatezza: inquietudini, incoerenze, scostamenti dal quotidiano, torbidità da addebitare al testo dipinto nel ritmo alterno dell'incomunicabilità. Poiché di questo si tratta: i personaggi sono capitati lì senza volerlo, in corso d'opera, tra insofferenza e capriccio, come in un rifugio, aspettando che il notturno si concluda con un'altra notte; eppure i caratteri sono dedotti da sensazioni, da luci, da colori. Ovvero il medíum è ben scelto, il disegno monta un ingranaggio dove ogni meccanismo collima tenendo d'occhio la realtà e distraendola; ogni momento della costruita naturalezza sembra calcolato meticolosamente sulla ripetizione di disegni e spostamenti di impianto, cancellature di cui volutamente rimangono tracce, come le cicatrici sulla pelle. Sillabe distillate con una scelta di pronuncia, con una calma irritante. Un' osservazione del vero (se non la verità), è un dettaglio da inserire nel quadro, secondo uno scrupolo da teatro francese. Se gli schemi del racconto e delle immagini si intravedono anche in qualche stadio di modifica e quindi la ricerca se non palese è intuibile, nessuna condizione è in tutto accettata nell'apparente fissità, in questo modo di considerare l'insieme figurativo lasciando comunque spazio a un evento ulteriore; e a rendere imprendibile il senso del dipinto è proprio l'ambiguità delle presenze umane, presenze-assenze. C'è, come si diceva, lo scrutare dal di dentro i personaggi, per cui l'aspetto finale, quello con cui si manifestano finalmente nel quadro, è frutto di sottrazione e di complessi passaggi, quasi da spettro a forma plastica e da forma plastica a forma dipinta su un sipario di buio. Notturno scandire della luce che rientra in se stessa, che si apre all'interno di stanze con incerta qualificazione. Un profilo di donna che sembra ritornante, una fisonomia, la stessa, disegnata con diverse interpretazioni. Replicano voci afone, i falsetti. e le tenebrose raucedini, fra evocazione autobiografica dell'autore e pose, frammenti di citazioni beckettiane; scorre così il flusso visivo, un'antologia ritagliata da situazioni che Sughi non ha mai abbandonato e che ora prendono campo con esperienza più completa, quella in cui il coinvolgimento è talmente perfetto che il pittore non si sottrae dall'autonoma vita delle figure. La pittura sembra costruita per apposizioni e sovrapposizioni, si rivela e si nasconde a se stessa fra struggimenti crepuscolari - Caffe di notte, Gran caffe, Nel caffe -, notturni, e intese equivoche: pochi controllati gesti nelle scene: le figure si portano alla bocca una sigaretta, guardano nel vuoto, nel loro star ferme c'è l'attesa dell'evento, dell'ineluttabile, una qualche rassegnazione, quasi un assenso alla fine. Evocano le ombre di Weimar, il crollo dei miti, la caduta. Ogni organismo ha pregi e difetti inestricabili; nella sua presenza si sente che è passato dal livore dell'invidia, delusioni e ossessioni, dall'ipocrisia della società. Appaiono ammalianti, nello svariare delle immagini, persino l'inerzia e la noia che sono fatte emergere e si risolvono nell'addensamento di colori spenti e come svuotati poiché è il segno a prevalere, a mostrare in tutta la sua energia ciò che la mano dell'artista modella per successive, incalzanti contaminazioni. Sull'imponderabile di ogni oggetto e di ogni figura cala l'incubo di una sistemazione millimetrica; mancherebbe però lo scatto capace di rendere credibili e vitali le scene se non fossero assunte con un filo appena di autoironia, guardate come un frammento di assurdo. L'affermarsi di un discorso quanto mai attento alle atmosfere, ai toni sommessi e a queste impalpabili convenzioni linguistiche diviene esemplare nell'importante dipinto Notturno, 1999 (180x200), con un bellissimo ritratto femminile in primo piano, preso di profilo, rilievo che ci trattiene nel quadro, in un clima indimenticabile: sembra quasi che il pittore, ritrovando realtà di cui certo è stato spettatore, riversi esperienza e senso critico, ma senza sovrapporsi pi~ di tanto a quel leggero soffio che è la verità dei personaggi, in modo che possano convivere nell'immagine, nella finzione, due incalzanti autenticità, dell'artista e degli individui dipinti: sembrano qui dischiusi, dissigillati dalla loro indifferenza, dalla negazione, dall'infinito che pur resta sospeso come lampo sul presente, come trama. Nella cesura, tra fascino e bellezza, si giocano le possibilità espressive delle figure, e anche dell'ambiente, di quelle luci che guarniscono l'essere dipinto con frequenza teatrica. C'è persino una divagazione all'esterno con questa ottica notturna: Paesaggío romano e Sera nella campagna romana, del 1999, danno l'indicazione del luogo nel quale sono state fatte le riprese; vedute o presagi di vedute, come gli studi di teste che si sentono nel fondo di certi quadri, o dietro le teste dipinte, paesaggi che tengono dentro quantità di eventi appena percepiti e cancellati dal sopravvenire di stagioni e di scene diverse. E' un ordine critico che non può essere rovesciato, uno sguardo sulla crisi che dà chiaramente il senso complessivo di questo ciclo: donne, uomini, gente matura e giovani si scambiano le maschere, la maschera psicologica da indossare, sul viale del tramonto del mondo occidentale, e ancora li, sul cambiare e declinare di un'epoca c'è un pittore che raffigura una donna al tavolino con davanti un bicchiere e dà l'idea di una pagina secolare che si è consumata nel grande libro della civiltà. Al fondo, però, di questo libro dipinto, come recita un titolo di teatro di Lars Noren, La notte è madre del giorno.
Luigi Cavallo
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