|
|
FOTO PRESENTI 13 |
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE LA GORGONE E GLI EROI
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO FREGIO DEL LAZIO : L'ENERGIA
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE ABISSO
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE LA FAMIGLIA
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE MOLINO PRESSO TERRACINA
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE RITRATTO DI BAMBINA CON SFONDO DI PAESAGGIO,
Giulio Aristide Sartorio, Ritratto di bambina 1923.
Olio su tela, 66x90
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE SULL'ISOLA SACRA
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE IL DRAKEN A PONTEGRADI
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE ATTACCO AEREO A VENEZIA
|
Sartorio Giulio Aristide
SARTORIO GIULIO ARISTIDE PONTE PRIULA
|
|
|
|
Sartorio A questa formazione tradizionale si sovrappone la spiccata simpatia –in parte determinata da esigenze economiche che l’orientano ad una pittura in voga, di facile mercato- per il virtuosismo di Mariano Fortuny, ed esegue quadretti ed acquerelli di ambiente settecentesco. Con il dipinto Malaria (Cordova, Argentina, Museo), esposto a Roma nel 1882, si presenta sotto una veste rinnovata, volta ad accenti di verismo umanitario michettiano, ancora più evidenti in seguito, sotto la diretta influenza del maestro abruzzese, sia quando lavora alla pittura del paesaggio, sia quando si impegna negli studi di animali (con certa attenzione, anche, al Palizzi). Frequenta i circoli letterari della capitale , collabora a Cronache Bizantine e nel 1883 stringe amicizia con Gabriele d’Annunzio per cui illustra nel 1886 l’Isotta Guttadauro. Questo lavoro documenta i suoi interessi, più consistenti dal 1890, per la poetica preraffaellita, con particolare attenzione a Hunt, Millais, Madox Brown più che a Dante Gabriele Rossetti. Ne nasce la naturale adesione, nel 1893, al gruppo costiano In arte libertas. Tuttavia la scelta di una malintesa tradizione italiana come opposizione all’impressionismo, perché fondata sull’accademica minuzia della trama disegnativa, conduce l’artista ad una pittura di piglio grandioso, preoccupata di eleganze che non tardano a virare in senso floreale, e ridondante di quell’enfasi letteraria cui lo stimola la vena poetica dannunziana. Il manifesto pericolo del suo allontanarsi dal cero per resuscitare una sorta di ellenismo eroico, è evidente sia dalle illustrazioni per Il Convito di Bosis che nel trittico Le vergini Savie e le vergini stolte (Roma, Museo del Roma), tanto che sia il Costa sia il Michetti cercano di distogliere Sartorio da quest’inclinazione esortandolo ad un viaggio in Inghilterra, che effettua, per conoscere direttamente il preraffaellismo. Nel 1889 si era recato con Francesco Paolo Michetti a Parigi, dove aveva esposto I figli di Caino, riscuotendo largo successo di critica. Ritornato in patria e ospite del Michetti a Francavilla, si applica allo studio del paesaggio e degli animali, soprattutto in pastelli o in acqueforti e litografie di cui non esegue tirature. Tuttavia anche questa produzione è animata da un chiaro taglio decorativo, ricostruita com’è in studio, seppur con spunti dal vero, solo preoccupata di un realismo tutto esteriore. Presto ritorna al simbolismo estetizzante, epidermica rievocazione di contenuti e moduli classici, del dittico Diana di Efeso e gli schiavi, La Gorgone e gli eroi, 1899 (Galleria Nazionale d’Arte Moderna). Ma il lessico sartoriano sta flettendosi dagli stilemi preraffaelliti ad accentuazioni liberty, in parte dovute alla permanenza di quattro anni in Germania (1895-1899) come professore nell’Accademia di Weimar, su invito del Graduca Carlo Alessandro. Entra in contatto con i simbolisti tedeschi (Sera di primavera e Abisso verde, 1900; Piacenza, Galleria d’Arte Moderna Ricci Oddi) e frequenta la casa di Nietzsche. Rientrato in Italia svolge una duplice attività, solo apparentemente antitetica ma in realtà abbastanza reciprocamente "legata"” quella di paesista, animatore con Coleman, Giuseppe Raggio e Onorato Carlandi del gruppo dei XXV della Campagna Romana, e l’impegno in grandi lavori di decorazione. La prima, cui è legata la sua fama maggiore, definitivamente consacrata dall’Esposizione di Venezia nel 1914 dove comparve con 80 tempere, ha per soggetto la campagna laziale e le paludi pontine. Del secondo aspetto sono documento i fregi allegorici in chiaroscuro per le Biennali veneziane del 1905 e del 1907, i lavori ornamentali per L’Esposizione di Milano, la decorazione simbolico-idealista dell’aula della Camera dei Deputati in Montecitorio (1908-1912) dove celebra la storia d’Italia dall’epoca dei comuni al risorgimento.Del secondo aspetto sono documento i fregi allegorici in chiaroscuro per le Biennali veneziane del 1905 e del 1907, i lavori ornamentali per L’Esposizione di Milano, la decorazione simbolico-idealista dell’aula della Camera dei Deputati in Montecitorio (1908-1912) dove celebra la storia d’Italia dall’epoca dei comuni al risorgimento.Insegna all’Accademia di Belle Arti romana sino al 1915 poi partecipa, volontario, alla grande guerra e ne illustra gli episodi bellici in 27 soggetti (Milano, Galleria d’Arte Moderna) il cui obiettivismo manifesta gli interessi del Sartorio per la fotografia e per la carica di astrazione della sua spietata oggettività.Si impegna, addirittura, nel 1918, nella realizzazione di un film, Il mistero di Galatea, ed è sempre più impegnato nella sua attività di critico (aveva già scritto puntuali saggi anche su Dante Gabriele Rossetti e sui preraffaelliti), di autore di versi e prose; il poema drammatico Sibilla (Milano, 1920) costituisce un tentativo d’integrazione fra arte figurativa e letteratura, dacché versi, tavole, fregi, scrittura del testo, tutto è opera dell’artista. L’attività postbellica, oltre l’impegno per la decorazione della nuova cattedrale di Messina e le parentesi dei viaggi in Egitto, in Siria e in Palestina, aggiunge al già vasto repertorio del pittore un nuovo soggetto: le replicate immagini dei figli e della moglie, colte sulla spiaggia di Fregene con eleganza liberty e apparente verismo in cui persiste la netta traccia di reminiscenze preraffaellite e il sapore della diafana luce idealistica: Fregene (1917), Mattinata sul mare (1917 c.) e la Famiglia (1919), Si citano ancora le opere Natale di Roma e Autumnalia (Milano, Galleria d’Arte Moderna), Sull’isola sacra e Vittoria di Ostia (Trieste, Museo Revoltella), Alba sul Tevere a Fiumicino, 1903 (Venezia, Galleria d’Arte Moderna).
Ad Orvieto, a Palazzo Coelli, una mostra racconta Giulio Aristide Sartorio paesaggista, viaggiatore e decoratore
Orvieto - Il bello della campagna romana. Terra sulla quale “riposarono gli occhi di Romolo e Numa, di Cesare, Nerone e San Paolo”, spettacolare “successione di colline solcate da due fiumi e degradanti fino al mare di Omero e di Virgilio”. E’ questo suo fascino inalterato di natura contaminata dalla storia e dal mito che ha ispirato la pittura di paesaggio, perché “la campagna romana ha contenuto i più grandi drammi dello spirito, è stata teatro del più grande impero del mondo, vide le tragedie della morale moderna, e le vestigia delle glorie e degli avvenimenti sono rimaste sopra questo suolo significanti, vigili, ammonitrici”. Il bello della campagna romana lo rivela, con parole suggestionate e infarcite di una retorica autocelebrativa e classicista, Giulio Aristide Sartorio, una delle più estrose e sapienti personalità artistiche fin de siecle, che nel cinquantennio tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento ha partecipato alla ricerca di un nuovo stile nazionale italiano tra velleità idealistiche, cedimenti accademici, aspirazioni neorinascimentali ed estetismi d’annunziani, ma che nell’osservazione attenta e ravvicinata della natura ha raggiunto gli esiti più raffinati e originali. Come dimostra la piccola grande mostra di Orvieto, “Giulio Aristide Sartorio. Il Realismo Plastico tra Sentimento ed Intelletto”, ospitata a Palazzo Coelli fino al 18 luglio, dove sfila un articolato panorama dell’opera di Sartorio, con oltre sessanta lavori provenienti da istituzioni pubbliche e collezioni private, a documentare un’attività principale dal 1890 alla fine degli anni Venti del secolo scorso, e dove spicca soprattutto il repertorio dei deliziosi pastelli e tempere dedicati al paesaggio. Soggetto, questo, in cui Sartorio riesce a stemperare la sua spiccata propensione al simbolismo e a rivelare, di contro, la profonda suggestione di una visione autentica, registrata dal verro. La sua, in fondo, è una risposta tutta italiana alle incursioni en plein air macinate dai colleghi francesi. Sartorio, d’una profonda e ispirata romanità, vuole restituire l’atmosfera antica e mitica di un luogo, ma lo fa con toccante maestria, senza scadere nel pittoresco. Non ha bisogno di ricorrere necessariamente a ruderi, ma sceglie l’arma sofisticata della ricomposizione della luce sulla tela e del taglio della composizione. E la visione di una natura intellettualmente complessa nasce dall’incontro diretto con la campagna romana, di cui racconta pascoli e transumanze, acquedotti e rocche, stagni e paludi, fiumi e spiagge marine, fiori selvatici e bufali, boschi e mulini, registrando ogni variazione luministica, ogni esuberanza stagionale. La mostra vuole dimostrare, dunque, come Sartorio sia il vero maestro della tradizione della pittura di paesaggio a Roma: “I suoi pastelli rivelano qui, nella commistione di efficaci impasti cromatici, una personalissima sigla: la superficie, che appare a prima vista un po’ spenta, è pronta ad esplodere nel tumultuare delle cromie fino a raggiungere una specificità inimitabile - spiegano i curatori della mostra Pier Andrea De Rosa e Paolo Emilio Trastulli - Non v’è artista romano che abbia saputo meglio interpretare il grandioso scenario dell’Agro, così inafferrabile e mutevole nelle diverse ore del giorno e nelle opposte stagioni, che solo le superbe qualità mimetiche ed espressive dei pastelli sartoriali riescono a rendere felicemente in tante prove”. Ma questo sguardo “pensante” alla natura si ritrova anche negli scenari colti durante i suoi innumerevoli viaggi, dal fronte austriaco, conosciuto sotto la Grande guerra, dove partì volontario, all’America Latina raggiunta nel ’24 con la nave Italia, dalle escursioni in Egitto, Medio Oriente e Giappone. In buona parte, la mostra focalizza proprio questo carattere artistico di Sartorio, animato da una curiosità colta, poetica e sentimentale verso il mondo naturale, con piccoli pastelli come “La piena del Tevere” dove la spianata d’acqua è resa con un moto cangiante e turbinoso del colore, come la “Pastorale di Ninfa”, dove lo scenario, costruito abilmente con un taglio fotografico, riversa in primissimo piano un gregge di pecore, come il “Mulino presso la fonte Ferocia a Terracina”, un olio dallo sgargiante gioco cromatico che insiste sugli effetti di riflesso sull’acqua, o ancora “L’isola Sacra”, gli scorci di Nemi, panoramiche ampie del lago vulcanico incastonato sotto gli effetti del sole tra picchi a strapiombo, e “Lo stagno di levante a Castel Fusano”, una mirabile costruzione di effetti ondosi a tradurre una superficie mossa da ombre riflesse e intensità di trasparenze. Ma nel ricco e vertiginoso diario di viaggio, ecco scenari assolati come “La piana di Beirut”, le vette innevate a picco sul mare delle Isole degli Evangelisti nello Stretto di Magellano, così come gli scenari di commovente animalesca umanità dell’Isola delle foche e dei pinguini, o i ritratti nobili, quasi aristocratici, di tigri, leoni e leonesse. Tutte opere, queste, che raccontano un Sartorio non solo animalista provetto, in tempi non sospetti, e grande viaggiatore, ma anche un Sartorio che inevitabilmente testimonia una conoscenza aggiornata delle ricerche europee nella pittura di paesaggio. I soggiorni inglesi nell’estate del 1893 a Londra, Manchester e Liverpool, raccontano uno studio ravvicinato di maestri come Constable e Turner, e i suoi viaggi in mezza Europa, tra Parigi e Weimar, dove verrà chiamato come professore di pittura del Granduca Carlo Alessandro nel 1896, gli spalancano un panorama di nuove idee. La mostra di Orvieto, dunque, punta a sdoganare quell’idea di regionalismo con cui è stato catalogata l’arte di sartorio. E i paesaggi danno il loro contributo, come “Scorcio sul Tamigi”. Di contro, il percorso espositivo non può certo liquidare la produzione di più plateale ed edulcorato classicismo, tipica della fama più manualistica di Sartorio, più notoriamente conosciuto per quell’interpretazione monumentale e retorica di gusto neo-michelangiolesco che ha sfoggiato nelle grandi imprese decorative nel primo decennio del Novecento, quando imperava un’affannosa e “decadente” ricerca di uno stile nazionale italiano che contraddistinguesse la nuova Italia unita, uscita dal Risorgimento. Come dimostra il fregio per l’aula del Parlamento di Roma, o il fregio decorativo del Lazio per l’esposizione nazionale di Milano del 1906, di cui in mostra sfilano alcuni particolari e bozzetti preparatori, dove l’attaccamento al modello del nudo atletico appare imperante e dove l’allegoria e il simbolismo si intrecciano in esasperate coreografie sceniche, come testimoniano “L’Energia”, il “Miracolo di scienza e d’ardimento”. E il Sartorio discepolo di Nino Costa, fomentato dall’esuberanza preraffaellita e dall’inquietudine allegorica di Bocklin, e dall’estetica infiocchettata al limite dell’Art Nouveau, che lo ha reso celebre come illustratore delle opere di D’Annunzio, viene fuori da opere come “Abisso verde”, “Festività”. E “Bambina ferita”, splendida, dove lo sfondo naturalistico quasi astratto nella sua informe esuberanza luministica, carica di contrasti acidi di luce e ombra, accoglie una bimbetta-cherubina, d’una plasticità raffaellesca, nell’atto umano di accarezzare il piedino sanguinante. Forse l’opera che esprime l’autentico Sartorio, artista-intellettuale profondamente moderno, scrittore, saggista e novelliere, fotografo e persino regista agli albori del cinema, convivono queste qualità.
IL MERCATO L’imponente mole di lavoro testimonia una ricerca tra lo studio accademico dell’antico e le attualità del Simbolismo: ne risultò, nel primo Novecento, un tipo di iconografia neorinascimentale, oggi di difficile ricezione commerciale. Gli studi grigi monocromi, di varie tecniche, vengono però proposti con crescente gradimento e valutati da 13000 a 31000 Euro. Il mercato romano assorbe facilmente oli e pastelli della campagna romana a prezzi tra 2600 e 7700 Euro ed eccezionalmente anche oltre 20700 Euro. Le grandi tele di sapore floreale-decó (bagnanti sulla spiaggia di Fregene), di formato verticale, hanno esiti tra 26000 e 52000. Sono a volte reperibili disegni finiti, a prezzi sui 2600-3100 Euro, mentre le scene di guerra hanno un mercato incerto. Destano perplessità alcune opere eseguite con tecniche riproduttive di difficile analisi. Nel 1969 gli eredi misero in vendita numerose opere a un’asta milanese
|